Agricoltura e società nel Medioevo

La grande proprietà alto-medievale

Quando l’impero romano cadde a seguito dell’invasioni barbariche col tempo si andò a perdere molte tecniche colturali, a causa di un drastico cambiamento di mentalità e di una profonda crisi.
Il discorso è valido soprattutto per le strutture del mondo rurale, delle quali sono universalmente note la lentezza a modificarsi e la greve capacità di resistenza.
Il tardo impero consegnò al Medioevo una serie di grandi proprietà coltivate attraverso l’opera di schiavi (“servi”) o di coloni.
La tendenza in tali grandi aziende era già quella di produrre per il consumo piuttosto che per la vendita.
E questo e uno dei molti effetti della crisi economica del mondo romano.
L’aspetto della crisi politica, dell’insicurezza ritornata dopo secoli di pax romana, è invece il fenomeno parallelo che vide molti liberi accomandarsi a un potente, o un “patrono”, cioè a un grosso proprietario, per diventare suoi coloni o suoi clienti; che vide molte villae e grandi proprietà fortificarsi.

Il regno della foresta e dell’incolto V-X sec.

Nei primi secoli il paesaggio era dominato dalle foreste, che ricoprivano gran parte del continente. Nei paesi mediterranei, per la verità, il clima secco e il degradamento del suolo avevano in molti casi impedito che rinascessero i grandi boschi distrutti nell’antichità.
In Italia il Piemonte era ricoperto di boschi; un’enorme foresta copriva nella pianura padana gran parte del territorio veronese (fra i fiumi Tartaro e Menago).
Nella foresta si potevano raccogliere i frutti, si poteva pescare negli stagni e cacciare la selvaggina.
Lì si trovava il miele, unica sostanza edulcorante del tempo.
Ma la foresta era soprattutto preziosa per il pascolo, particolarmente per quello dei maiali, ghiotti di nocciole e di ghiande.
La carme di maiale, il lardo soprattutto, era parte essenziale del nutrimento. Il legno infine, oltre che materiale da costruzione, era l’unica sorgente di calore contro il freddo invernale.

La grande battaglia contro il bosco, l’incolto, le paludi, il mare

La lotta che l’uomo ha condotto tra la fine del X secolo e il XIII contro la natura selvaggia, per meglio dominarla, è senza dubbio uno dei grandi avvenimenti della storia. L’arretramento delle foreste e l’avanzamento degli spazi coltivati assumono ora un ritmo nettamente più intenso. Per quanto sia difficile fissare zona per zona le fasi del fenomeno, il secolo XII fu il momento culminante delle bonifiche e dei diboscamenti.
In Italia una grande e secolare opera di prosciugamento delle terre acquitrinose e di drenaggio delle acque, iniziata già nel IX o X secolo, si ebbe nella pianura padana.

Il momento dei progressi tecnici

Le conseguenze del mediocre equipaggiamento tecnico si fanno sentire in primo luogo nel settore agricolo. La terra è avara perché gli uomini sono incapaci di trarne tutto il profitto possibile.
L’attrezzatura è rudimentale, le arature, poco profonde, la terra lavorata male.
L’aratro antico, a vomere simmetrico di legno temperato al fuoco o rivestito di ferro, adatto ai suoli superficiali e accidentati delle regioni mediterranee, persiste a lungo anche dove la sua funzionalità è chiaramente discutibile.
Senza dubbio la comparsa e la diffusione dell’aratro a vomere dissimmetrico e a versoio, con l’avantreno mobile, munito di ruote, tirato da un attacco più vigoroso, rappresentò per le pianure europee un notevole progresso.
Tuttavia i tentativi di miglioramento dell’aratura sembrano identificarsi più con una ripetizione del lavoro nel corso dell’annata agricola che con un perfezionamento degli attrezzi.
Si diffonde poco a poco in certe regioni, al più tardi intorno al XII secolo, l’abitudine di arare due volte la parte di terra lasciata annualmente a riposo.
Più comunemente tuttavia l’aratura, doveva essere fatta una sola volta prima della semina.
Che essa fosse talora molto superficiale risulta anche da una miniatura inglese della prima metà del Trecento, dove si vede che le zolle venivano frantumate a mano con una mazza.
La terra, scavata, rimossa malamente, avrebbe potuto ricostituirsi solo con l’impiego ripetuto di sostanze fertilizzanti.
Ma l’agricoltura medievale rivela, anche per questo aspetto, la sua arretratezza.
Il concime più conosciuto e utilizzato era naturalmente il letame.
E quello di capre o suini che vivevano nella foresta, dei greggi che pascolavano la maggior parte del tempo all’aria aperta, andava in gran parte perduto.
Per i grossi capi risulta che molto spesso le comunità agricole non erano in grado di nutrirne un gran numero.
In certe zone più intensamente popolate e coltivate si può chiaramente notare, negli ultimi secoli del Medioevo, un conflitto aperto tra agricoltura e allevamento brado del bestiame.
Ma in qualche caso ciò non significava necessariamente una più bassa disponibilità di letame per le terre a cultura.
In Toscana anzi, ma probabilmente anche altrove in Italia, i proprietari fondiari cittadini intervenivano con i loro capitali anche nella dotazione di bestiame da lavoro dell’azienda rurale o comunque, magari a dure condizioni, ne favorivano l’acquisto da parte dei contadini.
Stabulati in un apposito ambiente della casa rurale, o in una vicina capanna, due buoi o un paio di vacche, un’asina, dieci o quindici pecore potevano talvolta fornire un concime sempre insufficiente, ma comunque interamente utilizzabile.
Conseguenza di tutte queste deficienze organiche dell’agricoltura medievale è che la terra, lavorata male e poco arricchita, tende di regola a esaurirsi presto ed è necessario lasciarla riposare perché si ricostituisca.
Ma è opportuno precisare subito che anche il Medioevo ebbe le sue scoperte e conobbe dei progressi.
Il più notevole riguarda proprio la parte di terra da lasciare ogni anno a riposo, la sostituzione cioè della rotazione biennale con la rotazione triennale.
Nel sistema di rotazione biennale, l’unico conosciuto dai romani, circa metà della terra veniva seminata con cereali d’autunno, mentre l’altra metà veniva lasciata a riposo (“maggese”).
Il secondo anno le funzioni tra le due porzioni si invertivano.
Nella rotazione triennale la superficie arabile era invece divisa in tre parti.
Una di queste veniva seminata in autunno con frumento e segala.
Nella primavera successiva veniva seminata invece la seconda porzione con avena, orzo, piselli, ceci, lenticchie o fave.
La terza porzione di terra arabile era lasciata a maggese.
Nell’anno successivo la prima porzione veniva seminata con colture primaverili, la seconda rimaneva a maggese, la terza riceveva grani d’autunno.
Quando, a partire almeno dal XII secolo, si cominciò, sia nella rotazione biennale che in quella triennale, ad arare due volte il maggese invece che una come si era fatto nell’VIII-X secolo alla fine di giugno, per eliminarne meglio le erbe e aumentarne la fertilità, la rotazione triennale vide crescere la sua produttività. Si calcola, in modo chiaro ma un po’ astratto, che dei contadini che avessero da coltivare 600 acri a rotazione biennale e arassero due volte il maggese, avrebbero arato ogni anno 900 acri (300 + 600) per soli 300 messi a coltura.
Utilizzando invece gli stessi 600 acri a rotazione triennale e arando due volte il maggese, essi avrebbero arato ogni anno 800 acri (200 + 200 + 400) per 400 di seminativo.
L’incremento della produzione, con la nuova rotazione, sarebbe già stato di un terzo.
Ma dato che il mutamento riduceva 100 acri di aratura ogni anno, si sarebbero potuti aggiungere, senza lavoro ulteriore, 75 acri (25 + 25 + 50), nel caso che ci si fosse potuta procurare con la bonifica o il diboscamento nuova terra da seminare.
Gli stessi contadini sarebbero stati così in grado di coltivare, in luogo di 600, 675 acri dei quali 450 seminativi.
Rispetto ai 300 della rotazione biennale il vantaggio del nuovo sistema sarebbe stato del 50%.
Fra i molti vantaggi della nuova rotazione c’era quello della facilitazione data ai nuovi dissodamenti, all’abbattimento delle foreste o al prosciugamento dei terreni paludosi.

Rotazione delle colture

La rotazione delle colture è una tecnica in agricoltura (e nel giardinaggio). Costituisce un importante elemento per mantenere e/o migliorare la fertilità dei suoli (insieme a pratiche agronomiche come il sovescio) e quindi una risorsa per aumentarne il rendimento. Si parla di rotazione delle colture quando coltivazioni diverse si succedono in un ordine definito sul medesimo terreno, ripetendo la medesima coltivazione nel tempo in cicli regolari. Possono quindi darsi rotazioni biennali, triennali, quadriennali e così via. La rotazione delle colture consiste nel non lasciare che su un terreno dato si avvicendi per due volte di seguito un ciclo colturale della stessa pianta o di piante della stessa famiglia.

La rotazione ha diversi vantaggi: contribuisce ad interrompere il ciclo vitale degli organismi nocivi legati ad una certa coltura; in particolare, la successione di piante di famiglie differenti (per esempio, alternanza tra graminacee e piante oleaginose, tipo grano e colza) permette di interrompere il ciclo di alcune malerbe;grazie alla diversità dei sistemi radicali, il profilo del terreno è esplorato meglio, il che si traduce in un miglioramento delle caratteristiche fisiche del suolo e in particolare della sua struttura (limitandone il compattamento e la degradazione), e quindi della nutrizione delle piante;l’impiego delle leguminose consente l’aggiunta di azoto simbiotico al suolo; più in generale, la composizione dei diversi residui colturali contribuisce alla qualità dell’humus.

La rotazione ha quindi un effetto importante sulla vita del terreno e sulla nutrizione delle piante. Un altro vantaggio può consistere in una migliore ripartizione del carico di lavoro del terreno, con l’introduzione nel ciclo della rotazione di colture a prato o a maggese.
Un altro, forse non meno notevole, fu, nella grande pianura europea, la sostituzione del cavallo al bue nel lavoro dei campi.
Il primo, già migliorato nelle razze per l’uso militare che ne faceva l’aristocrazia, era allora nettamente più forte e resistente del secondo, le cui razze erano molto lontane dal perfezionamento e raffinamento raggiunto più tardi.
Mentre il bue consuma erba, il cavallo consuma avena e solo la rotazione triennale – l’avena è una coltura primaverile – permetteva di produrre la biada necessaria per i cavalli.
Altre notevoli innovazioni di quella che è ormai consuetudine fra gli studiosi chiamare una vera e propria “rivoluzione agricola” riguardarono il miglioramento della trazione animale, che rese più efficace l’unione dell’aratro.
Per il cavallo, al pettorale che soffocava la bestia togliendole forza, venne sostituito il collare di spalla. Per il bue entrò nell’uso il giogo frontale.
Lo sforzo diventa così molto più efficace, la forza di trazione ne risulta enormemente accresciuta. Inoltre l’uso, che ora (X-XI secolo) si diffonde, di ferrare gli zoccoli del cavallo ne rende più sicuro e più spedito il passo.

Il sovrappopolamento e i sintomi del malessere (fine XIII-inizio XIV secolo)

Tra la fine del XIII secolo e i primi decenni del XIV l’Europa raggiunse densità demografiche mai conosciute in passato.
Secondo i calcoli del Russell, da altri emendati o discussi, la parte occidentale del continente avrebbe visto la sua popolazione toccare i 54.400.000 abitanti prima del 1348, registrando un incremento del 140% rispetto al 950.
Le ricerche di demografia storica, che vanno sempre più moltiplicandosi, dimostrano anche che la popolazione era diversamente distribuita nei vari paesi e all’interno dei medesimi. Per la Francia (nei confini attuali, notevolmente più ampi di quelli di allora) si propongono cifre oscillanti tra i 19 e i 21 milioni di abitanti tra il 1328 e il 1340; per la Germania intorno al 1340 si parla di 14 milioni; per l’Inghilterra tra il 1340 e il 1348 si oscilla tra 3 milioni e mezzo e 4 milioni e mezzo.
Verso l’inizio del secolo, infine, 8.300.000 abitanti avrebbe annoverato la penisola iberica, 8.500.000-8.700.000 l’Italia, 600.000 la Svizzera, altrettanti i quattro paesi scandinavi, 1.100.000 i Paesi Bassi, 1.300.000 la Polonia. Per la Germania si parla di una densità di 24 abitanti per kmq.

Dalla metà del XIII secolo, del resto, i dissodamenti cessano di progredire, non tanto perché non ci siano più terre incolte o boscose da bonificare quanto perché si tratta di terre di rendimento sempre più scarso e ipotetico. Molteplici sono i segni indiretti delle aumentate difficoltà.
Le reiterate spartizioni successorie delle terre contadine danno una dimostrazione della proliferazione familiare e del rapido aumento della popolazione sulle tenures o sulle libere proprietà.

Più violento ancora, almeno a partire dall’inizio del XIII secolo, sarebbe stato l’incremento nell’Italia settentrionale, dove da un indice 37,8 nel 1201-1250 il prezzo del frumento passa a un indice 72,8 nel 1251-1300. Per converso i salari paiono, in Inghilterra, immobili o anche in leggero regresso.
Più probante, anche se costituisce una statistica isolata, l’evoluzione dei tassi di mortalità calcolabile attraverso i conti conservati negli archivi vescovili di Winchester per il periodo 1240-1350.
Nel 1245 la “speranza di vita” di un uomo di più di vent’anni era di ventiquattro anni.
Nell’intero periodo il tasso di mortalità risulta del quaranta per mille, mortalità infantile esclusa. Calcolandovi anche quest’ultima, di cui i documenti non parlano ma che era sempre altissima, si può ragionevolmente arrivare a una mortalità del 70 per mille per l’insieme della popolazione, un tasso cioè molto più alto di quello rilevato dalle statistiche moderne nelle popolazioni più arretrate.
Questo tasso cresce comunque ancora a partire dal 1290, raggiungendo, per gli adulti, il 52 per mille tra il 1297 e il 1347.
La speranza di vita cade allora a vent’anni soltanto.
Questi dati rivelano un progressivo peggioramento organico e una forte sensibilità alle epidemie da parte di una popolazione in stato di deperimento fisico.

Ogni carestia determinava un’alta mortalità fra le classi più umili, contadini compresi.
All’inizio di novembre del 1316 morirono 2660 cittadini, cioè il 10% circa della popolazione. A Bruges, meglio approvvigionata di cereali per via marittima, i morti furono 2000, cioè il 5,5% della cittadinanza. Terribile per le città toscane, emiliane, umbre risultò l’annata 1346-1347. A Firenze sarebbero morte di fame 4000 persone dei ceti più umili, cioè il 5% circa della popolazione.
Gravissima la mortalità infantile a Bologna.
Si pensa normalmente che la causa dei cattivi raccolti e delle crisi ricorrenti sia da ricercare nell’esaurimento di una parte almeno delle terre coltivate, per eccessivo e prolungato sfruttamento cerealicolo e mancata rigenerazione per scarsità di concimi.

La commercializzazione dei prodotti agricoli

L’estensione del mercato e le distanze tra zone di approvvigionamento e zone di consumo erano spesso notevolissime.
Fra i trasporti, quello per mare, totale o parziale, costituiva per i cereali quello di gran lunga più importante, perché più facile e meno costoso.
Per questa ragione città marinare con un misero entroterra è in Italia il caso di Genova erano di regola meglio approvvigionate e più al sicuro dalla fame di quanto non lo fossero i centri dell’interno circondati da campagne intensamente coltivate.
In ogni modo il volume degli scambi era strettamente determinato dalla densità demografica della zona importatrice, dal suo grado di “urbanizzazione”, cioè dalla percentuale di popolazione non addetta ai lavori agricoli e concentrata in città o nei centri maggiori del territorio.
Dati i bassi rendimenti della terra, anche un vasto territorio poteva essere lontano dall’autosufficienza anche in annate di raccolto normale.

Che cosa si coltivava nella pianura padana nel medioevo

Erbe officinali erano coltivate anche nell’orto del contadino ed il quello del signore, ma esclusivamente in quanto entravano nell’alimentazione quotidiana come aromatizzanti.
Gli ortaggi (olera) erano distinti in erbe (Herbes) e radici (Radices) a seconda che la loro parte commestibile si sviluppasse sopra o sotto terra.
Nel Capitulare de Villis, vengono elencate ben 72 piante che Carlomagno voleva vedere coltivate negli orti distinte in:

  • alimentari come il fagiolo (quello cosiddetto “dall’occhio”), il cece, la fava, il pisello, il cocomero, il melone, la zucca, la lattuga, il finocchio, l’indivia, la bietola, la carota, la pastinaca, il bietolone, il cavolo-rapa, il cavolo cappuccio, la cipolla, il porro, il ravanello, l’aglio, lo scalogno, gli spinaci…
  • medicinali come il giglio, la rosa, il fieno greco, la salvia, la ruta, il cumino, il rosmarino, il dragoncello, la scilla, il giaggiolo, l’anice, il girasole, la ruchetta, la bardana, il nasturzio, la mentuccia, il prezzemolo, il sedano, il levistico, l’aneto, la senape, la santoreggia, la menta, l’erba gatta, il papavero, il coriandolo, il cerfoglio…molte delle quali usate anche in cucina.
  • industriali come la robbia usata per tingere e il cardone usato per cardare nella lavorazione dei tessuti.

Tuttavia nel Medioevo la scelta di fondo non è la varietà, ma puntare su alcune specie particolarmente apprezzate e con caratteristiche che rendevano “conveniente” la loro coltivazione ovvero:

  • Porri – Aglio – Cipolle: è il gruppo di ortaggi più consistente grazie alla conservazione estremamente agevole. L’aglio aveva un posto importante anche nella farmacopea.
  • Cavolo – Rapa – Cavolo cappuccio: base delle zuppe familiari, sono gli ortaggi per eccellenza. Di notevolissima importanza, la rapa, veniva coltivata in grandi quantità specie nei campi in quanto a fronte di una resa alta, aveva poche esigenze colturali, era di facile conservazione, garantiva un valore nutritivo alto.
    La raccolta delle rape era una importante scadenza nel calendario agricolo per il ruolo fondamentale nel sostentamento alimentare dei ceti rurali.

Caso diverso per la frutta: i frutteti come colture autonome erano poco diffusi nel Medioevo dove era più frequente trovare alberi da frutto nei campi fra i cereali e negli orti.

Ricerca a cura di Matteo Faustini


Fonti
  • “Strumenti – Agricoltura e società nel medioevo” di Giovanni Cherubini
  • Wikipedia

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